Il mio percorso yogico
Non tutti sanno come è iniziato il percorso Yogico del Dr Bhole che, da semplice medico fisiologo senza nessuna conoscenza né del sanscrito, né dei testi, è divenuto nel tempo un’autorità nel campo delle scienze yogiche, tanto da essere insignito del prestigioso titolo di “yogacharya”. Come ha fatto?
D. Laureato in medicina moderna lei si è specializzato in fisiologia, come è nato in seguito il suo interesse per lo Yoga ed in particolare per il Pranayama?
R. Sono casualmente venuto in contatto con un lavoro di ricerca condotto daSwami Kuvalayananda riguardante lo studio sull’interscambio gassoso nei vari tipi di pranayama. Swami Kuvalayananda è stato il fondatore dell’Istituto Kaivalyadhama di Lonavla. Presso questo Istituto io ho poi completato il mio dottorato in fisiologia respiratoria (M.D.) e lì sono quindi rimasto per 35 anni.
Analizzando i dati già raccolti dall’Istituto e nel corso di esperimenti specifici condotti in prima persona ho potuto osservare che nelle pratiche dei vari pranayama non si notava una grande variazione in termini di assunzione di ossigeno e di emissione di anidride carbonica, nel pranayama il maggiore consumo di ossigeno dipende dall’aumento dell’attività muscolare mentre la diminuzione del consumo di ossigeno consegue al rilassamento dei muscoli stessi.
Da un punto di vista fisiologico il consumo di ossigeno è infatti direttamente relativo all’attività muscolare.
Non sarei stato in grado di procedere oltre se Swami Digambarji, successore di Swami Kuvalayananda, non mi avesse con grande autorevolezza convinto a studiare il Pranayama in termini di attività pranica, non in termini di interscambio gassoso e di volumetria respiratoria. Era il 1975 quando la mia ricerca è ripartita sulla base di queste premesse.
Ho sentito il bisogno di riprendere seriamente lo studio dei testi e, partendo da questa nuova prospettiva, ho studiato gli effetti delle molte pratiche purificatorie dello HathaYoga in quanto esercizi preparatori per il pranayama e per i kumbhakas. Ho cercato di comprendere il significato di termini come vajus, prana.
Lo Hathapradipika dice che i vaju risiedono all’interno del corpo (yavad dehe sthitau vayu, tavad jivanam uchyete. H.P.II), ma c’è anche un vaju all’esterno (bahistha vaju) che viene risucchiato all’interno (achaman) nell’atto dell’inspiro ed un vaju che risiede all’interno della cavità del corpo (kosthasya vaju) che viene espulso verso l’esterno nell’atto dell’espiro (nissaranam).
Nei testi ci si riferisce a pratiche come vaju shuddhi, vaju sadhana, vaju margas, ho capito che andava fatto un serio sforzo per meglio comprendere e differenziare termini come respiro, respirare, dieci vajus, cinque pranas, indrya pranas, ossigeno e anidride carbonica.. Non ci si può più permettere di usare questo linguaggio in modo indiscriminato come spesso avviene
D. Lei ama dire che il suo metodo si basa sulla comprensione del concetto, sulla relativa esperienza e sullo stato che ne risulta. Quanto ritiene importante lo studio e la conoscenza dei testi tradizionali, la conoscenza del sanscrito e quale ruolo ha avuto la sua personale esperienza nella sua ricerca?
R. Nello yoga la conoscenza del sanscrito è importante e molto utile perché permette di risalire alla radice della parola e di comprenderne meglio il suo significato. Vi faccio un esempio: nello H.P. troviamo termini come puraka/rechaka, svasa/prasvasa, prana/apana, spesso questi termini vengono tutti tradotti come inspiro ed espiro senza differenziarne il significato. Sempre nello H.P. si parla di ida/pingala o di surya/chandra che molti traducono con narice destra e narice sinistra. Il termine asana, che troviamo negli Y.S.P., viene spesso tradotto semplicemente come posizione perdendo l’originale significato di postura cui Patanjali si riferisce.
Per quanto riguarda l’esperienza personale è stata per me fondamentale e direi che è altrettanto utile ed importante per tutti i praticanti di yoga.
I principianti trovano difficile sentire, percepire o esperimentare il proprio corpo quando è immobile, è più facile infatti esperimentare i movimenti del corpo che non il corpo stesso.
Lo yoga ci propone di sviluppare la consapevolezza del corpo in quanto struttura di base della nostra esistenza (percezioni propriocettive) piuttosto che esperimentare il corpo in movimento (percezioni cinestesiche).
La stessa cosa vale per il respiro, inizialmente c’è spesso confusione tra respiro e respirare e non si riesce a risalire ai principali parametri esperienziali del respiro stesso: movimento di espansione e ritrazione delle pareti del corpo, percezione tattile del passaggio dell’aria che fluisce e defluisce, sottili sensazioni interiori relative alla presenza di prana in tutto il corpo.
Si parla inoltre di antarakasha e di chidakasha, spazi e cavità che si dovrebbero riempire e svuotare attraverso la pratica di puraka e rechaka in alcuni kumbhaka pranayamas.
Io stesso inizialmente ho faticato a comprendere questi concetti a livello esperienziale, ma se le cavità non vengono esperimentate neanche i relativi processi possono essere sperimentati e i termini usati nei testi classici perdono il loro significato ed il loro possibile valore terapeutico.